Il sogno concretissimo di una Regione “delle carte in regola”. L’aveva Piersanti Mattarella che ne stava costruendo, mattone dopo mattone, l’edificio politico e ideale, fatto di scelte di principio e di governo solidissime e dirompenti. Buttato giù la mattina dell’Epifania di 42 anni fa, sotto i colpi inferti da una oscura strategia contro il Paese.
Oltre quattro decenni dopo, non si è interrotto, invece, lo sforzo di una ricerca della verità che procede a fatica lungo la pista di una saldatura tra Cosa nostra e il terrorismo nero, di un delitto politico-mafioso. Palermo ricorda il suo presidente della Regione, ucciso il 6 gennaio 1980. Così come la natia Castellammare del Golfo con una breve cerimonia nel cimitero comunale.
Tra le braccia del fratello
Piersanti Mattarella era uscito dalla sua abitazione di via Libertà ed era salito a bordo della sua Fiat 132 per andare a Messa, insieme alla suocera, alla moglie Irma Chiazzese e ai figli Maria e Bernardo. Niente scorta: il presidente la rifiutava nei giorni festivi, voleva che anche gli agenti stessero con le loro famiglie. Si era appena messo al volante, quando si avvicinarono i killer che spararono una serie di colpi. Accanto a lui il fratello Sergio, oggi presidente della Repubblica, che lo prese tra le sue braccia. Il 24 maggio di quell’anno avrebbe compiuto 45 anni.
La mafia e la spirale terroristica avevano spento la speranza politica più autorevole dell’Isola, l’allievo di Aldo Moro, siciliano tenace e capace, lucido e ostinato propugnatore di una politica rigorosa e di rinnovamento. Il caso fu da subito condizionato da una intensa opera di depistaggio.
Solidarietà autonomistica
Il presidente della Regione aveva avviato una decisa politica riformatrice per ricostruire il tessuto economico, sociale, culturale dell’Isola. Nella primavera del 1975, su suo impulso da assessore al Bilancio, venne approvato a larghissima maggioranza, anche con i voti del Pci, il Piano regionale di interventi per gli anni 1975-1980, primo tentativo di programmazione a lungo termine delle risorse regionali. Un passaggio che diede forma e sostanza al dialogo a sinistra. Una “solidarietà autonomistica”, che anticipava la solidarietà nazionale di Moro e di Enrico Berlinguer del 1976.
La sfida delle riforme
Il 9 febbraio 1978 Piersanti Mattarella fu eletto dall’Assemblea presidente della Regione siciliana, alla guida di una coalizione di centrosinistra con l’appoggio esterno del Partito comunista italiano. Le riforme sul fronte degli appalti e dell’urbanistica compresse gli spazi della speculazione edilizia e degli interessi di mafiosi e palazzinari. Da tempo si era reso conto della necessità di recidere con urgenza e nettamente i legami della politica e del suo partito con la mafia. Una visione complessiva, un’operazione di pulizia della Dc e un progetto di buon governo che minacciavano gli interessi della mafia e di consolidati centri di potere politico ed economico.
Con quel delitto, così, l’Isola piombò nuovamente nel suo inferno, in un destino che appariva sempre più segnato, senza scampo nè redenzione possibile. Questa stessa zona della città, quella attorno a via Libertà, cuore urbano del capoluogo, era diventata il crocevia del terrorismo mafioso: lì vicino, in via Di Blasi, il 21 luglio del ’79, era stato ucciso il capo della Mobile Boris Giuliano. Una scia di sangue, iniziata quell’anno, il 26 gennaio, con l’uccisione del giornalista Mario Francese. Il successivo 9 marzo era stata la volta del segretario provinciale della Dc, Michele Reina. Il 25 settembre del ’79 furono ammazzati il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso.
Reperti e misteri
La vicenda giudiziaria è stata lunga e complessa. E non definitiva. Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo i boss della commissione di Cosa nostra (Totò Riina e Michele Greco su tutti, con gli altri esponenti della cupola: Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Francesco Madonia e Antonino Geraci). L’inchiesta, però, non è riuscita a identificare né i sicari né i presunti mandanti esterni. Nel 2018 la procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio: nuovi accertamenti considerati doverosi, anche attraverso complesse comparazioni fra reperti balistici, per quanto siano resi complicati dal lungo tempo trascorso e dalle sentenze passate in giudicato.
Pista nera
Nel mirino ancora una volta i Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, il cui capo, il terrorista nero Giusva Fioravanti, riconosciuto dalla vedova di Piersanti Mattarella, Irma Chiazzese, fu processato e definitivamente assolto dall’accusa di essere stato il killer. Uno dei reperti del processo celebrato a Palermo, la targa di un’auto del commando, sarebbe stata divisa in due dagli autori del furto e una parte fu poi ritrovata in un covo dell’organizzazione terroristica neofascista. (AGI)
Dal punto di vista processuale, peraltro, la collaborazione tra “neri” e mafiosi, in vari fatti e azioni criminali, basata su un presunto scambio di favori tra mafia e terrorismo di estrema destra, era già stata più volte sostenuta, ad esempio per la strage del dicembre 1984 del Rapido 904.
“Ipotesi suggestiva”
C’è poi il capitolo sulle armi che uccisero Piersanti Mattarella e il giudice antiterrorismo Mario Amato; sono dello stesso tipo, una Colt Cobra calibro 38 Special, ma non c’è alcuna certezza sulla loro identità: non si può dire cioè che il presidente della Regione Sicilia e il giudice, assassinati rispettivamente a Palermo e a Roma, nell’arco di poco meno di sei mesi, nel 1980, siano stati uccisi con la stessa pistola. Si tratta, allo stato, di un’ipotesi ritenuta “suggestiva”, ma sulla quale non ci sarebbero ancora i necessari riscontri tecnici.
Giovanni Falcone il 3 novembre 1988 in una audizione in Antimafia definì l’indagine “estremamente complessa”, dal momento che “si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa, nell’ambito di un presunto scambio di favori tra mafia e terrorismo di estrema destra.
“Il ministro della guerra”
Nel più recente atto d’accusa della procura generale di Palermo sui presunti assassini dell’agente Nino Agostino sono finite anche le indagini condotte dalla Dda da cui sono emersi rapporti di Agostino, cacciatore di latitanti, con il magistrato ucciso nella strage di Capaci nella fase in cui questi stava conducendo investigazioni delicatissime sulla ‘pista nera’. Nino Madonia, killer di Nino Agostino e di sua moglie, “è stato il vero ministro della guerra e ministro di polizia di Cosa nostra – ha detto l’avvocato Fabio Repici, legale di parte civile nel processo Agostino – il più pericoloso esponente della storia della mafia siciliana, ed è anche il killer di Piersanti Mattarella. Un delitto per il quale non è mai stato processato”. Nero, di certo, oscuro, fitto, resta ancora il mistero su un delitto voluto e progettato – su questo nessun dubbio – da “menti raffinatissime”.
AGI
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