Il 19 marzo scorso si aprono due mondi al Carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. Due mondi diversi e distanti per due persone con storie profondamente differenti ma che lavoravano insieme all’interno della struttura carceraria. E soprattutto, se ne apre uno per lo stesso carcere di Barcellona, e per lo più è fatto di domande.
Il primo mondo è duplice ed è quello che oggi ha visto entrare in carcere le due professioniste, l’una da Messina, la dottoressa Antonella Campagna, l’altra da Barcellona, l’infermiera Maria Rosa Genovese. L’ordinanza di oggi, che ha trasformato i domiciliari in carcere per l’accusa di aver introdotto in una struttura carceraria stupefacenti e strumenti atti a comunicare con l’esterno, apre a due visioni dello stesso mondo, quello del carcere, luogo di lavoro prima, luogo di detenzione oggi. Ma tutto comincia il 19 marzo appena trascorso? Probabilmente no.
I FATTI
Quando l’agente penitenziaria che sovrintende all’ingresso dell’infermiera Maria Rosa Genovese e della dottoressa Antonella Campagna, si accorge che la prima avrebbe sottratto al passaggio dal metal detector una busta di plastica di colore blu, più che un sospetto forse concretizza una certezza. Così quando l’infermiera Genovese passa alla dottoressa Campagna, che è già entrata precedendola, la suddetta busta, eludendo così il transito dal metal detector, il gesto rapido non sfugge alla agente che ne chiede il controllo. Al suo interno c’è una coperta, un “piumino” viene definita nel rapporto, e, al suo interno, c’è una ulteriore busta di colore verde, opaca che non mostra il contenuto.
E’ a quel punto che l’infermiera sottrae la busta verde al controllo del metal detector e chiede alla dottoressa Campagna di poterla depositare nel suo armadietto. All’interno della busta verde, a seguito del controllo dell’armadietto della dottoressa, gli operatori, alla presenza del comandante degli agenti penitenziari, scoveranno cavi USB per la ricarica dei cellulari, spinotti sempre atti alla ricarica, due confezioni di cartine per sigarette, cuffiette per smartphone, un set di chiavi ottagonali atte ad aprire le placchette elettriche affisse alle pareti del carcere. Ma non è finita: dalla perquisizione della borsa di proprietà della dottoressa Campagna saltano fuori 7 spine bianche usate per la ricarica di cellulari, 5 batterie esterne del tipo powerbank ed altri cavi usb. Inoltre da uno degli armadietti, quello in uso alla dottoressa Campagna, gli agenti penitenziari avvertono la fuoriuscita di un forte odore di stupefacente, rivelatosi poi, all’apertura dell’armadietto, hashish.
E’ una brutta storia tutta da chiarire in termini di responsabilità dirette ed eventuali responsabilità ricadute, anche solo per eventuale ed ingiustificabile ingenuità. Ma anche in termini di valutazione dei sistemi e delle procedure di controllo, che forse non sempre hanno funzionato. A cominciare dalla valutazione di chi lavora all’interno della struttura e dell’opportunità che continuasse a farlo.
L’INFERMIERA GENOVESE
Il punto è che sull’infermiera Maria Rosa Genovese erano giunte alla direzione del carcere segnalazioni che probabilmente hanno fatto scattare maggiore attenzione, già peraltro scattata, in precedenza, già anche a carico della dottoressa Campagna. Controlli conclusi con un nulla di fatto. Eppure dell’infermiera Genovese non si poteva non essere a conoscenza che tre nipoti erano transitati, diciamo così, dalla struttura dell’ex OPG di Barcellona. Che la Genovese ha parentele che sconfinano in maniera non certo distante con la criminalità locale e che quindi, non certo per colpa diretta della stessa infermiera Genovese, probabilmente sarebbe stato meglio non rischiare situazioni di eventuale imbarazzo, o peggio, permettendo che la stessa lavorasse nello stesso carcere che ha visto detenuti i propri nipoti, anche se in tempi diversi. E’ quel mondo di domande di cui abbiamo scritto prima, che si apre e che si deve necessariamente spalancare.
Per quanto attiene ai fatti ed alle responsibilità è ovviamente tutto da accertare e da chiarire, soprattutto a cominciare dalla posizione della dottoressa Campagna e della sua effettiva complicità o della possibile disarmante ingenuità, così come in merito alle riferite pressioni ricevute.
IL SISTEMA DI APPROVVIGIONAMENTO
Di certo però pesa un’annotazione di Polizia Giudiziaria del mese di gennaio di quest’anno che narra di un sistema di vero e proprio approvvigionamento, all’interno del carcere, di droga del tipo hashish, cocaina e crack, di telefonini al prezzo di 1.500 euro ciascuno e di intimidazioni anche a personale che lavora all’interno della struttura affinché si prestino a fare da intermediari tra il mondo esterno e le esigenze illecite del mondo interno alla struttura carceraria.
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