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Carlo Alberto Dalla Chiesa, “un omicidio di Stato”

- 03/09/2022
via carini commemorazione dalla chiesa giovanni paparcuri voce di Sicilia

da ANTIMAFIA DUEMILA – di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari

Chi ha ucciso il generale Carlo Alberto dalla Chiesa? Fu ucciso solo dalla mafia o qualcun altro voleva la sua morte? Chi trafugò i documenti dalla villa e dalla borsa? Sono solo alcune delle domande che a 38 anni di distanza dell’attentato di via Carini, a Palermo, tornano prepotentemente alla ribalta. Quesiti che aspettano una risposta così come troppo spesso accade per i delitti eccellenti che hanno attraversato la storia del nostro Paese.
Certo, sull’omicidio non si parte da zero, ma ancora oggi poco o nulla si sa su quei mandanti esterni che, probabilmente, chiesero l’eliminazione del Prefetto, appena giunto a Palermo, e che si assicurarono di far sparire i documenti dalla valigetta e dalla cassaforte dell’abitazione in cui lo stesso viveva con la moglie.
Ma procediamo con ordine.
Il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa è stato ucciso il 3 settembre 1982, assieme alla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, e all’agente di scorta, Domenico Russo. Un massacro avvenuto in pochi attimi quando i killer della mafia hanno affiancato le auto in movimento sparando all’impazzata con i kalashnikov AK-47.
Totò Riina, intercettato nel 2013 dalla Dia in un colloquio durante l’ora d’aria con Alberto Lorusso aveva raccontato gli attimi di quel tragico evento: “Appena è uscito lui con sua moglie, lo abbiamo seguito a distanza. Potevo farlo là, per essere più spettacolare, nell’albergo, però queste cose a me mi danno fastidio… L’indomani gli ho detto: ‘Pino, Pino (si riferisce a Pino Greco detto ‘Scarpuzzedda’, uno dei più famigerati killer di Cosa Nostra) vedi di andare a cercare queste cose che … prepariamo armi’. A primo colpo, a primo colpo ci siamo andati noi altri… eravamo qualche sette, otto di quelli terribili, eravamo terribili. Nel frattempo lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato là dove stava, appena è uscito fa… ta… ta…, ta… ed è morto”.
Le sentenze hanno accertato le responsabilità di Cosa nostra con le condanne in via definitiva dei killer (Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, insieme ai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci) e dei cosiddetti “mandanti interni” a Cosa nostra (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci).
Attorno all’uccisione dell’altissimo ufficiale dell’Arma sono presenti tutti quegli elementi che caratterizzano le grandi stragi di Stato con tanto di sparizione di documenti e misteri. Ed è stato sempre il capo dei capi, Totò Riina, a confermare che al generale furono sottratti i documenti.
“Loro – diceva il boss corleonese – quando fu di questo … di dalla Chiesa … gliel’hanno fatta, minchia, gliel’hanno aperta, gliel’hanno aperta la cassaforte … tutte cose gli hanno preso”. E per loro intendeva ambienti esterni a Cosa Nostra. I servizi? Una possibilità tutt’altro che campata in aria.
E’ un fatto noto che qualcuno entrò nell’abitazione del prefetto a Villa Pajno durante la notte fra il 3 e il 4 settembre 1982. Arrivò fino alla cassaforte e la svuotò.
La mattina del 4 settembre, infatti, i familiari di dalla Chiesa cercarono la chiave per aprire quella cassaforte ma senza successo. La chiave ricomparve solo il pomeriggio dell’11 settembre, nel cassettino di un segretario. Quando la cassaforte fu aperta, però, dentro non vi era più nulla a parte una scatola (vuota a sua volta).
La valigia di pelle del generale, invece, è stata ritrovata nel 2013 nei sotterranei del tribunale di Palermo. Era priva di documenti.
Eppure nel verbale di sopralluogo della polizia scientifica, conservato nel fascicolo giudiziario sulla strage di via Carini, viene certificato che poco dopo le 21.30 del 3 settembre 1982 Carlo Alberto dalla Chiesa (già morto da una quindicina di minuti dentro la sua auto) teneva tra le gambe una borsa piena di carte. In un altro verbale, datato 6 settembre, vi è anche una lettera di trasmissione della squadra mobile di Palermo alla Procura della Repubblica ma qui si fa cenno solo alla borsa del generale. E i documenti? Scomparsi nel nulla.

n un video Rai, acquisito dai magistrati della Dia su disposizione della Procura di Palermo, la valigetta di pelle viene immortalata tra le mani di un militare dell’Arma.
Nel settembre 2012 in una lettera anonima che giunse all’allora sostituto procuratore Nino Di Matteo, oggi membro togato del Csm, si diceva che “un ufficiale dei Carabinieri in servizio a Palermo si preoccupa di trafugare la valigetta di pelle marrone che conteneva documenti scottanti, soprattutto nomi scottanti riguardanti indagini che dalla Chiesa sta cercando di svolgere da solo”. Inoltre si parlava di un ufficio riservato che il generale dalla Chiesa avrebbe avuto alla caserma di piazza Verdi, sede del comando provinciale dei carabinieri: “Era ubicato di fronte al nucleo comando del Rono e lì vi erano faldoni, appunti e messaggi”.
La Procura di Palermo, nelle persone dei pm che indagavano sulla trattativa Stato-mafia, riaprirono il fascicolo e sentirono anche Nando dalla Chiesa come testimone.
Anni dopo su quelle indagini non si è saputo più nulla, ma i quesiti restano numerosi.

Perché fu ucciso dalla Chiesa?
Per comprendere i motivi per cui fu ucciso il generale, probabilmente, si deve guardare anche a quei famosi 100 giorni vissuti nel capoluogo siciliano. Poco prima di partire per la Sicilia disse al presidente del Consiglio Giulio Andreotti queste parole che offrono una possibile chiave di lettura: “Non avrò riguardo per quella parte dell’elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori”.
A raccontarlo è stato il figlio, Nando dalla Chiesa, nel libro “Delitto Imperfetto”.“Mio padre disse a noi dopo quel colloquio: ‘Sono stato da Andreotti e quando gli ho detto tutto quello che si dice sul conto dei suoi in Sicilia è sbiancato in faccia'”. Parole che furono testimoniate anche nel processo. Nando dalla Chiesa accusava quantomeno di complicità morali gli appartenenti alla corrente andreottiana della Democrazia cristiana.
Del resto il prefetto dalla Chiesa aveva chiesto poteri speciali per combattere la mafia così come aveva combattuto il terrorismo. Gli furono promessi dal ministro Rognoni ma concretamente non gli furono mai dati.
Anche le altre figlie del generale dalla Chiesa, Rita e Simona, sono più volte intervenute negli anni per chiedere verità e giustizia. Qualche anno fa Simona ha ricordato un fatto semplice: “La mafia in quel momento non aveva convenienza nell’uccidere mio padre. Non aveva ancora i poteri per mettere in atto quel che aveva in mente. E non poteva nemmeno compiere delle indagini specifiche proprio perché non è quello il compito del Prefetto. E la mafia sapeva anche che uccidendo lui, la moglie e l’agente Russo avrebbe portato anche ad una reazione dell’opinione pubblica. Dunque perché si doveva uccidere?”.
E’ questa una delle domande rimaste fin qui inevase, fermo restando che in cento giorni la sua attività contro Cosa nostra era appena agli inizi.
Che dietro al delitto non vi fosse solo Cosa Nostra è un dato che appare sempre più evidente. Si può escludere che non furono uomini di Cosa Nostra ad entrare nell’abitazione del Prefetto per svuotare la cassaforte e, a detta degli stessi mafiosi e dei collaboratori di giustizia dietro al delitto non c’era solo la mano mafiosa.
Sul punto vale la pena ricordare l’intercettazione ambientale dove il boss Giuseppe Guttadauro, uomo di fiducia del superlatitante Bernardo Provenzano e in quel momento reggente del mandamento di Brancaccio, mentre parla con Salvatore Aragona, anche lui medico e mafioso, dichiarava: “Salvatore… ma tu partici dall’ottantadue, invece… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a dalla Chiesa… andiamo parliamo chiaro…”. “E perché glielo dovevamo fare qua questo favore…”. Ad intercettare le parole del boss, nel 2001, erano i magistrati di Palermo coordinati dal pm Nino Di Matteo, che indagavano sull’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento aggravato alla mafia.
Anche il collaboratore di giustizia Francesco Paolo Anzelmo, nel processo, aveva dichiarato che quell’eccidio non era stato determinato dalla guerra di mafia, ma era “una cosa che era restata fuori” e successivamente anche i pentiti Tullio Cannella e Gioacchino Pennino fornirono ulteriori spunti. Il primo, vicino a Pino Greco Scarpuzzedda, aveva raccontato la lamentela con quest’ultimo per avere dovuto organizzare il delitto (“Stu omicidio dalla Chiesa non ci voleva… Ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca”); mentre il secondo aveva parlato di convergenza di interessi esterni a Cosa Nostra. Una pista seguita a suo tempo anche dai giudici del primo maxiprocesso. Tanto che gli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in merito al delitto parlavano proprio di “convergenza di interessi tra Cosa Nostra e settori politici ed economici”.
Ed anche i giudici, nella sentenza di condanna dei boss mettono nero su bianco che “si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.
Trentotto anni dopo, nonostante il tempo trascorso, non si può smettere di sperare che sulla morte del generale dalla Chiesa, vero Padre della nostra Patria, si arrivi ad una verità completa. E per farlo è necessario che la società civile non si accontenti più delle mezze verità, sostenendo i familiari e quella magistratura sana che non guarda in faccia a nessuno per riaccendere i riflettori e smascherare quelle “menti raffinatissime” che si nascondono dietro gli atroci delitti della nostra Repubblica.