Da Trevignano Romano, comune alle porte del lago di Bracciano, vicino Roma, fino a Graz, in Austria, passando per Varsavia, in Polonia, per arrivare a Leopoli, in Ucraina, ai confini della pace. È il viaggio che Giuseppe Papaluca, Pino per quanti vivono al quartiere Trieste di Roma, 62 anni, professione barbiere, ha compiuto per portare in Ucraina alimenti, viveri, medicinali e vestiti da donare alle popolazioni vittime dei bombardamenti della Russia e costrette alla fuga dalle proprie abitazioni. ‘Un viaggio a bordo di un pulmino sgangherato che mi ha prestato un amico e che- racconta Pino alla Dire- credevo mi avrebbe abbandonato una volta superata Viterbo’. E invece quel pulmino ha percorso strade ed autostrade, italiane ed estere, ha macinato oltre 5.000 chilometri di asfalto prima di arrivare a Leopoli, in Ucraina.
Un viaggio fatto tutto in solitaria, ‘perché- spiega Papaluca- non è facile trovare compagnia anche se in realtà non mi è pesato molto. Quando sono da solo, la compagnia è lo stimolo di sapere che sto facendo qualcosa di utile per altre persone. Quello mi dà la forza di stare da solo proprio perchè penso che ciò che faccio sia una cosa buona, soprattutto quando la faccio per gli altri’. Un viaggio pieno di sorprese, di emozioni e di sensazioni che Pino non potrà mai scordare. ‘Sono partito con entusiasmo, sicuramente eccitato per la missione che dovevo compiere. Arrivato a Varsavia ho scaricato tutto il contenuto del furgone e poi sono stato aiutato ad arrivare fino al confine. Una volta scavallato il confine con l’Ucraina e dopo circa 150 chilometri sono arrivato a Leopoli’. E nella città ucraina Pino assiste a quello che tutti noi vediamo in televisione, nel corso di telegiornali o di approfondimenti sulla guerra con la Russia. Ma mentre qui in Italia, o in altre parti del mondo, una volta finite le immagini di bombardamenti, di morti, di accordi politici mai raggiunti, di edifici distrutti si passa magari a parlare di sport o di argomenti più leggeri o è possibile cambiare canale, in Ucraina non si può fare zapping, il ‘telecomando’ non funziona. E allora ecco che le parole non ci sono più, non esce di bocca nulla di fronte a tanta sofferenza.
‘È come quando andai in Iraq– ricorda- e visitai un ospedale dove erano ricoverati bambini contaminati dall’uranio impoverito. Quando uscii da quel luogo ero completamente in silenzio, sono stato senza parlare per ore. Quello che vedi, quello che senti a livello emotivo improvvisamente ti sconvolge e ti cambia. È come se ti portasse in un’altra dimensione. È come se ti facessero vedere un altro pianeta che non conosci‘. In quel silenzio, in quella atmosfera fatta di sofferenza e di tristezza che Pino ritrova anche in Ucraina c’è però spazio per la compostezza. Ne è protagonista una lunghissima fila di persone, ognuna con in mano poche cose. ‘Quando sono tornato in Italia ho fatto una domanda ad alcuni bambini: cosa porteresti via di corsa se dovessi fuggire da una guerra? E poi ho rivolto lo stesso quesito ad un adulto. Io stesso ho provato ad immaginarmi in quella situazione così drammatica: ho una moglie, un figlio, Davide, che ha 8 anni, una casa che con sacrifici sto cercando di pagare e magari qualcuno mi dice che il giorno dopo devo lasciare tutto perchè c’è il terremoto o perchè c’è, appunto, la guerra. Forse mio figlio prenderà i suoi giocattoli preferiti o la maglietta a cui è maggiormente affezionato. Io, forse, i soldi che ho in casa o qualcosa piccolo oggetto d’oro ma quante cose potrò portare in un trolley, in uno zaino, in una valigia? In realtà nulla, solo lo stretto necessario, come qualcosa che mi servirà a coprirmi dal freddo. Le mani sono due e non si può portare più di tanto peso. Perciò immagino la sofferenza che questa gente sta provando nel lasciare tutto lì, nell’abbandonare tutte le proprie cose, la propria abitazione ma anche i propri ricordi. Quelli di una vita, magari la foto del papà che non c’è più. E poi non sa se tornerà e se ritroverà la propria casa ancora in piedi o se la troverà distrutta’.
Le emozioni, per Pino, non sono finite. Anzi. Ne stanno per arrivare altre, forse ancora più forti. Perchè se all’andata ha riempito il furgone di oggetti, prima di fare rientro a casa gli viene chiesto di portare in Italia tre giovani donne di circa 30 anni e le loro cinque bambine ucraine, dai 3 agli 11 anni. E Pino accetta. ‘Mi piace sempre ricordare quella frase zen- sottolinea- che dice ‘Una ciotola è utile solo quando è vuota’. E al mio ritorno, secondo il viaggio che avevo programmato, avrei avuto il furgone vuoto. Ma a cosa sarebbe servito un furgone vuoto, visto che avevo la possibilità di portare in salvo delle persone? Perciò ho accettato ben volentieri di riempirlo di umanità, di speranze, della possibilità di dare un po’ di serenità’.
E così ecco che sui sedili del pulmino prendono posto le tre donne con le loro cinque bambine. Tutte femmine. Già, perchè i maschi dai 18 ai 60 anni non possono uscire dall’Ucraina poichè reclutati e obbligati a combattere. ‘È sconvolgente pensare che un ragazzo di 18 anni, che è poco più di un bambino, possa indossare una divisa ed imbracciare un mitra, o che lo stesso posso fare un uomo di 60 anni, ormai stanco ed appagato dalla propria vita e che magari si vuole godere i nipoti o i suoi hobbies. Per me la guerra non ci dovrebbe essere ma se proprio non si può fare altrimenti credo che a farla dovrebbe essere chi decide liberamente di fare il soldato. È la sua missione. Io taglio i capelli perchè ho deciso di fare il barbiere, chi sceglie di fare l’avvocato lo fa perché vuole difendere i propri clienti. Chi ama la guerra, o comunque vuole lottare per il proprio paese perchè è un patriota, è giusto che faccia il militare. Ma quando un civile è costretto a fare il militare questo no, è una cosa che mi sconvolge. Perchè può capitare a chiunque abbia un figlio di 18 anni. E questo, per un genitore, è terribile. E mi sconvolge ancora di più se penso che in questo momento una famiglia ucraina dove sono presenti un figlio di 18 anni e un padre di 55 anni può vederli partire entrambi per la guerra. Una cosa assurda, povere donne e povere madri’. Ma questo, secondo Pino Papaluca, vale anche dall’altra parte, perchè il conflitto coinvolge anche le famiglie russe che hanno giovani che stanno combattendo e morendo. ‘Dobbiamo sempre stare attenti a non prendere le parti. Credo infatti che i media ci costringano a prendere per forza una posizione. E questo, secondo me, è sbagliato. Se nel percorso di ritorno avessi incontrato una mamma russa con suo figlio- tiene a precisare- li avrei presi, li avrei fatti stringere tutti insieme. Forse si sarebbero guardati male con le donne ucraine ma magari alla fine del viaggio si sarebbero abbracciati’.
In realtà un cittadino russo incrocia il destino del pulmino italiano con a bordo Pino e le donne e bambine ucraine. Ma in questo caso la violenza e il conflitto non entrano. Anzi. ‘Al ritorno avrei voluto percorrere le stesse tappe del viaggio d’andata- ricorda Pino- ma ho saputo che in Polonia la benzina era razionata. Per questo ho dovuto fermarmi in una piazzola e ho chiesto aiuto ad alcuni camionisti. La cosa incredibile è che la persona che ci è venuta in soccorso era di nazionalità russa. D’altronde non poteva essere altrimenti, il cerchio doveva chiudersi in questo modo. Un russo che aiuta un pulmino pieno di persone di nazionalità ucraina in questo momento storico che i due paesi stanno vivendo: il colmo dei colmi’. Dopo Ostrava, in Repubblica Ceca, il viaggio riprende, destinazione Varese per poi fare l’ultima tappa a Pescara. Pino è alla guida del furgone, spera che il mezzo preso in prestito non lo abbandoni fondendo il motore. Pino si gira o guarda dallo specchietto retrovisore in cerca dello sguardo delle sue passeggere, per vedere se tutto vada bene. O magari per far capire da uno sguardo che di loro può fidarsi. Dietro nessuna proferisce parola, nemmeno le bambine parlano. ‘Il silenzio che mi ha accompagnato nel viaggio di andata l’ho ritrovato nella fila interminabile di persone a piedi e poi proprio all’interno del furgone quando siamo tornati in Italia. Nessuna ha parlato per i primi tre giorni, sono rimaste tutte in silenzio. Due delle tre mamme provavano a sorridere ma era un sorriso di educazione, quasi di circostanza, mentre la terza donna non ha mosso un muscolo del viso, era di pietra. Un viso rigido che ha tenuto per tutto il viaggio. Il volto di quella donna mi ha ricordato la Pietà di Michelangelo‘. Il viaggio di ritorno è durato quasi tre giorni. Nemmeno Pino apre bocca. Meglio non dire niente e provare solo a far divertire le bambine e a farle sorridere. ‘Per i primi due giorni sembrava che dentro il pulmino non ci fosse nessuno, erano tutte completamente in silenzio. Se ci fosse stato mio figlio, insieme a qualche suo amichetto, avrei passato tutto il viaggio a chiedergli di fare meno rumore e di stare fermi. Ho davvero avuto la sensazione di essere da solo. Solamente ogni tanto mi chiedevano di fermarmi per poter andare in bagno’
‘Comunicavamo con la traduzione simultanea del cellulare. Il rapporto con queste mamme era quasi inesistente ma io non volevo disturbarle, non potevo parlare di Putin e della guerra, sarebbe stato troppo facile prendere le loro parti. Dovevo rispettare il loro silenzio. È stato un rapporto educato e cordiale ma distaccato’. Un rapporto distaccato che, però, si trasforma. All’improvviso. Avviene nel momento dei saluti, quando Pino scarica i bagagli e comincia a salutare tutte, grandi e piccole, per tornare a Roma. È in quel preciso istante che le giovani mamme lo abbracciano. Pino parla di ‘un abbraccio che non scorderò mai in tutta la mia vita. Sembrava un abbraccio in cui i corpi si fondono. Nella mia vita non ho mai avuto un abbraccio simile. E questo l’hanno fatto tutte e tre le donne. In quell’abbraccio c’era tutto: non solo il grazie, ma c’erano anche la paura, la salvezza, la speranza, la stanchezza, tutto quello che può riguardare i sentimenti, l’amore, la poesia che può provare un essere umano‘. ‘Non si può descrivere quell’abbraccio, non è possibile. Io ci provo da quando l’ho ricevuto e ogni volta che lo racconto ma è impossibile. C’è stata una fusione completa. È stata una cosa ovviamente commovente ed emozionante. Sono rimasto colpito da questo e ti assicuro che fino ad un secondo prima sembravamo dei perfetti estranei. È stato un abbraccio silenzioso, perchè non c’è stato nemmeno uno ‘spasibo’, ‘grazie’ in russo. Non ce ne era bisogno. Si è trattato di un momento davvero molto toccante‘.
Giuseppe, Pino, è sposato ed ha un figlio. ‘Mia moglie mi conosce da sempre e sa che queste cose sono per me quasi nella norma. Se io stessi un anno senza fare niente, immagino si preoccuperebbe e penserebbe che sto perdendo colpi. Preoccuparmi sempre di qualcosa e di qualcuno è nella mia natura, è nella mia indole. Probabilmente ho tanti peccati da farmi perdonare. Anche mio figlio, pur essendo piccolo, sa che faccio sempre queste cose. Adesso diventa più difficile partire, perchè esige che passi più tempo con lui. Però poi gli spiego ogni cosa, lo rendo partecipe e gli chiedo di aiutarmi. In tutti i casi devo dire che è anche orgoglioso di me anche se mi ha già detto che non vuole che parta nuovamente per quelle zone perchè ha paura che vada in guerra. Ovviamente non andrò in Ucraina, sarebbe troppo pericoloso e sciocco, ma tornerò ad aiutare i civili e porterò nuovamente in Italia altre persone‘.
dire.it
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